NON ABBIATE PAURA
DI QUELLI CHE UCCIDONO IL CORPO
Mt 10,26-33
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:
«Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.
E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geenna e l’anima e il corpo.
Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!
Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».
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La paura è uno dei sentimenti che maggiormente devasta l’equilibrio e la serenità del cuore umano e fa emergere, in un taglio tutto esistenziale, tutta la sua precarietà e inconsistenza. Non è proprio un caso che tutto il messaggio biblico, dai primi passi dell’uomo (Adamo) fino al nascere della nuova comunità con i racconti pasquali, sia attraversato da questo invito: ”Non temere”. In questo brano di Matteo poi, pur nella sua brevità di sette versetti, risuona per ben cinque volte: ”Non temete”, o “non preoccupatevi”.
Il momento in cui la paura avvinghia con più tenacia il cuore dell’uomo è quando si trova a tu per tu con Colui che è la fonte della vita, o con colui che è operatore di morte. Quando la sua esistenza è sollecitata ad allargare i confini per aprirsi a una vita nuova o quando avverte di trovarsi al traguardo del suo peregrinare, allora avverte disperatamente il peso della sua fragilità. Il primo di questi momenti l’uomo lo vive quando Dio irrompe nella sua esistenza e lo chiama a collaborare con Lui. Il secondo invece è una realtà che accompagna l’uomo come l’ombra, lo “tiene schiavo per tutta la vita” (Eb 2,15) e che da sempre è definito la “paura della morte” e di tutti quegli eventi che l’accompagnano: catastrofi, guerre, violenze, odio e inimicizie.
La reazione del Padre di fronte alla sua creatura che trema e cerca di nascondersi, è quella di avvicinarsi a lei, rassicurarla della Sua fedeltà e del Suo amore leale. Tutti i racconti biblici delle apparizioni e delle vocazioni sono l’esempio plastico di questo incontro dell’uomo che trema e di Dio che lo avvolge con il Suo amore. E Gesù, il Figlio del Padre, è venuto proprio per rassicurare l’uomo, con la Sua vittoria sulla morte, che anche la sua vita non si schianta contro il muro della morte. Questa è un evento naturale, non è un male; per cui siamo mortali ma il nostro limite non è la fine di noi stessi, bensì l’inizio dell’Altro e della nostra comunione con lui. Il vero principio e fine della nostra vita non sono i paletti a difesa della nostra esistenza terrena ma il Padre che ci ama e che amiamo.
Certo, finché viviamo, il nostro amore non è ancora perfetto; e per questo abbiamo anche paura pur senza esserne ossessionati. Lungo il decorrere del tempo possiamo senz’altro essere presi da perplessità e incertezze per le varie vicissitudini cui potremo andare incontro, ma questi timori svaniscono se invece che lasciarci assorbire dalla loro suggestione, ci lasciamo guidare dallo Spirito di Colui che ha dato la vita per tutti: “Poiché l’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2Cor 5,14-15). Solo quando siamo sospinti nel nostro cammino dal Suo amore, la normale paura della morte non diventerà la nostra filosofia di vita.
Alla luce di questa “filosofia” si illumina il significato di quanto Gesù ricordava ai suoi discepoli inviandoli in missione: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (10,16). Certo la loro e la nostra situazione di credenti in mezzo alla società sarà come quella di uomini inermi dinanzi a nemici armati e spietati; ma di fronte a questa minaccia non dobbiamo lasciarci intimorire ma impegnarci appieno per “svelare ciò che è velato”, far “conoscere ciò che è nascosto” e infine “proclamare ciò che abbiamo udito nell’orecchio”.
Ciò che da sempre è stato scandalo e bestemmia per ogni religione, ciò che fin dalla nascita dell’umanità è stato debolezza e stupidità per il pensiero umano, è il fallimento del bene, un mistero velato alla religione e alla sapienza dal velo della croce. Solo quando il nostro cuore si lascia sedurre dall’amore donato da Gesù sulla croce, allora sarà «tolto il velo» che impediva all’occhio umano di vedere il dono che Lui ha fatto di Sé; e solo così Dio si rivelerà nel Suo volto di Padre, compimento di ogni desiderio e luce del nostro volto.
Di qui deriva l’impegno del credente di far conoscere “non a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1Gv 3,18) ciò che a noi è stato rivelato per mezzo dello Spirito di Dio: “la sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta e che Dio ha preordinato nei secoli per la nostra gloria, nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla” (1Cor 2,8.10). È questo il compito affidato da Gesù a quanti credono nella sapienza e fortezza dell’amore del Padre che Lui ci ha donato sulla croce con il Suo Spirito.
Spesso l’esperienza ci porta a confessare che il seme buttato nel solco sia condannato alla sepoltura; e la stessa cosa siamo portati ad affermarla nei riguardi di quelle parole consegnate a un orecchio d’uomo che non ha mai udito. Eppure ogni apostolo e discepolo può essere credibile e autorevole nella misura in cui ha prima accolto il mistero nel proprio orecchio, porta d’accesso al cuore. La forza dello Spirito ci aiuterà a superare con coraggio le nostre contraddizioni interiori: permane infatti la paura che il seme muoia, anche se sappiamo che solo così porta frutto; cerchiamo di difenderci e scappare alla sorte dell’agnello tra i lupi, anche se sappiamo che è la sua vittoria.
Gli ultimi due versetti del brano di Matteo ci aiutano a operare il passaggio, sempre molto critico, dall’atteggiamento inquinato dalla paura ad uno stile di vita ispirato alla fiducia. Una fiducia in Gesù e nella Sua proposta di vita che è consegnata alla nostra responsabilità e affidata alle nostre mani. Di conseguenza la mia esistenza si realizza come una risposta alla sua iniziativa: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me“ (Gal 2,20). Ciò che allora mi attende al traguardo del mio cammino terreno dipende dal mio riconoscere ora, davanti agli uomini, il Figlio non solo con le labbra ma con il cuore e con la vita.
È indubbio che quando il Padre si affida alla responsabilità dei suoi figli, sa pure di esporsi all’eventualità della disavventura vissuta da Pietro: rinnegarlo. Quando affermiamo con determinazione di non riconoscerlo, contemporaneamente neghiamo di essere fratello e figlio; e inevitabilmente finiamo col perdere la nostra identità! “Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà» (2Tm 2,11s).
La vera garanzia di una pace profonda, oltre che unica opportunità di passare dalla paura alla fiducia, scaturisce dalla realtà che Colui che “ci rinnega” è lo stesso che ha dato la vita per noi peccatori e dal cui amore nulla può separarci: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore (Rm 8,38s). Per cui come frutto davvero inaspettato di chi ama veramente, con stupore e attoniti vediamo che “anche se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2Tm 2,13). Come potrebbe il Figlio non riconoscerci come fratelli! Sarebbe come un rinnegare se stesso! Il che non è possibile, perché lui è solo “sì” alla volontà del Padre affinché anche noi possiamo essere un generoso “sì” alla comunione fraterna. Forse ci potrà capitare di rinnegarlo, ma come Pietro anche noi possiamo sempre contare sulla Sua fedeltà a noi, che mai vien meno. La nostra fede certa e sicura non si basa sulla presunzione di essere impeccabili ma sulla fiducia che “eterna è la Sua misericordia” (cfr. Sal 117): la melodia divina che non cessa di incantarci e dare ristoro alle nostre aridità.
padre Agostino