Pentecoste

COME IL PADRE HA MANDATO ME
ANCH’IO MANDO VOI.
Gv 20,19-23

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

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Dopo l’incontro con Maria al sepolcro vuoto, Gesù è a Gerusalemme per incontrare i discepoli. È il “primo giorno della settimana”, la sera di quello stesso giorno in cui Gesù risorgendo ha distrutto la morte e rinnovato la vita. I suoi discepoli invece erano ancora paralizzati dal timore di quelle autorità che avevano fatto crocifiggere il loro maestro. E così, mentre la porta sigillata del sepolcro che doveva custodire il corpo morto di Gesù era stata ribaltata dalla potenza della vita, la porta invece del luogo dove si ritrovano i discepoli risucchiava nel suo buio un gruppo di inetti e divorati dalla fobia!
Ma se già Gesù di Nazareth, spinto dall’amore del Padre, superava ogni ostacolo pur di essere vicino a qualsiasi necessità di ogni creatura umana, ancora di più il Risorto che, senza neppure dover “sfondare la porta”, è già presente in mezzo a chi è in balia delle proprie inconsistenze per rinfrancare il loro cuore con quella realtà di cui hanno maggiormente bisogno in quel momento: ”Pace a voi”.
Il gesto con cui il Risorto accompagna questo dono è quanto mai eloquente: non si tratta semplicemente di indicare nei segni della crocifissione una conferma che Lui non è un fantasma ma che è veramente Gesù il nazareno. Si tratta dell’evocazione di una realtà più profonda, del compimento di quanto l’evangelista aveva misteriosamente predetto: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (19,37): è nel crocifisso infatti che possiamo scoprire chi è veramente quel Dio che “nessuno lo ha mai visto” (1,18) e riscoprire contemporaneamente la forza di quell’amore che solo è in grado di sedurre il cuore dell’uomo:” Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (12,32). Questo a sottolineare che la pace offerta da Gesù ai suoi non è un semplice gesto convenzionale ma sgorga dalla pienezza di una vita che è dono di sé per sempre. Finalmente alla presenza del Risorto il sepolcro delle nostre paure si apre alla pace e alla gioia, alla vita piena.
In queste ferite noi diveniamo capaci di capire quanto Dio ha amato le sue creature e riscopriamo la nostra identità di figli, cioè l’amore del Padre che abbiamo ricevuto nel suo Figlio. Ma l’amore, come ricorda magnificamente Tommaso d’Acquino, è tale perché non si coagula attorno a se stesso ma è di sua natura “diffusivum sui”, è sempre «in missione» perché ha una spinta interiore che manda la per­sona fuori di sé, verso l’altro. È proprio quest’amore del Padre donatoci dal Figlio che ci spinge verso i fratelli (cf. 2Cor 5,14), perché anch’essi lo accolgano e lo condividano con gli altri.
Notiamo allora come i discepoli dopo aver gioito nel vedere il Signore, poi lo ascoltano: quando l’occhio vede e il cuore gioisce, allora l’orecchio ascol­ta; la contemplazione non è estraneità ma si fa amore e impegno. Per cui la missione dei fratelli prolunga nella storia umana quella stessa del Figlio, che dopo aver compiuto il gesto eloquente della lavanda dei piedi, precisava: «Vi diedi un esempio, affinché come io feci a voi, anche voi facciate» (13,15) e: «Vi do un comandamento nuovo: […] come io amai voi, anche voi amatevi gli uni gli al­tri» (13,34). Essere testimoni dell’amore del Padre è il senso della missione di noi cristiani «(Padre,) come tu mi mandasti nel mondo, anch’io li mandai nel mondo» (17,18). Mandati da Gesù siamo chiamati a fare come lui: amare e lavare i piedi (cf. 13,13-17), e compiere le sue stesse opere (14,2). Questo significa nel suo significato più profondo “bere al Suo calice”, condividere appieno il Suo destino, proprio come il chicco di grano che caduto sotto terra porta molto frutto (12,24).
Più la nostra esistenza cresce nel protendersi verso i fratelli, più emerge la nostra consapevolezze e la nostra realtà di figli: è infatti nell’amore vissuto a favore dei fratelli che si diventa figli. Questa vita che raggiunge la sua piena maturità nel protendersi verso l’altro non è il prodotto della bontà umana né è conquistato con le risorse della natura umana; è l’efflorescenza dello Spirito di Gesù che con la sua azione non sopprime ma porta l’umanità che l’accoglie alla sua piena maturità. Solo accogliendo il soffio vitale dello Spirito di Gesù, la vita del Padre diventa la nostra vita, e la Sua gioia pervade la nostra esistenza.
“Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8). Questa considerazione di Paolo ci aiuta a capire che lo Spirito di Gesù è per sua natura “perdono”, un amore eccedente che supera la barriera del rifiuto e del peccato! Con il dono dello Spirito la comunità dei credenti riceve quindi il potere esclusivo di Dio di perdonare i peccati: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?» (Mc 2,7). A lei è consegnato il potere di separare, slegare e assolvere il peccatore dal suo peccato: un vero miracolo più grande che risuscitare i morti. Chi vive e opera all’insegna del perdo­no fa vivere l’altro, perché lo riconosce fratello; e di conseguenza anche lui rinasce come figlio uguale al Padre, perché ama come Lui: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori perché siate figli del Padre vostro celeste” (Mt 5,44).

Ad ogni credente quindi è dato il potere divino di perdonare; tut­tavia questo potere non è imposto. Per cui può succedere che mentre il Padre nel Suo amore sempre e solo perdona, noi invece – come sappiamo dalle nostre contraddittorie vicissitudini – possiamo anche non perdonare. Gesù allora sente la necessità di responsabilizzarci sull’importanza del nostro perdono, e ci ricorda che quanto non è accolto dal nostro perdono resta fuori della sfera della vita. Ma questo è davvero grave perché, se non perdoniamo, vuol dire che noi siamo ancora nel nostro peccato, non vivendo il perdono di Dio: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi” (Mt 6,14). Ancora una volta: l’amore e la vita del Padre vivono in noi se amiamo i fratelli. Il vero e profondo passaggio dalla morte alla vita che ogni uomo è chiamato a realizzare, si compie proprio così, nell’amore al fratello: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14). La presenza e l’azione dello Spirito in noi è per aiutarci questo passaggio/pasqua nella nostra esistenza.

padre Agostino